Pain Of Salvation
Panther
InsideOut Music
La visione multifocale della famosa prog-band prosegue le sue escursioni su terreni sconosciuti, tracciando il sentiero ad ogni passo, dove sentiero non c’era, o era poco vistoso. La verve è sempre quella dell’anima straziata, ma stavolta la rarefazione è aumentata e l’elettronica gioca una piccola parte importante. Queste sono opere che elicitano discussioni fra gli appassionati, ed essere delusi o a favore di un modo d’essere musicista, e verso il risultato ottenuto, non arriva mai all’oggettività quando un qualcosa è controverso.
“ACCELERATOR” mescola la sofferenza espressiva tipica della voce di Gildenlow con la classe passionale dell’ugola di Geoff Tate dei Queensryche. Se il suono blues iniziale di “Unfuture” fa capire male l’ambito del pezzo, l’oscurità da suono fantascientifico che incombe immediatamente dopo chiarisce subito che l’atmosfera è un’altra, ben più straniante, legata ad una moderna claustrofobia non del tutto Metal. La classica e tradizionale Prog-Metal song la troviamo in “Keen to a Fault”, con un cantato delicato che ci ricorda Bowie, grazie ai modi alludenti e decadenti. lascia un po’ interdetti la title-track “Panther” che butta dentro il sapore crossover realizzando un Nu Metal molto virato verso l’Hip-Hop e molto meno verso il Metal; eppure non è un filler ma un episodio che possiede una sua incontestabile forza espressiva. Molto poco metal anche “Restless Boy” anche se si denotano stoccate industrial; non è un gran pezzo, ma regge nel contesto, senza eccessiva caduta.
Non manca il senso d’oriente con “Species” che mischia Beatles e Pink Floyd in una piccola tumefazione soft che riverbera una forma psichedelica; il pezzo si divide in due perché poi arriva il giro riffico distorto, ma si rimane nella stessa tipicità anni sessanta/settanta, polverosamente quasi Stoner. “WAIT” tra piano, sassofono e chitarra acustica sono un respiro nella ispirazione normodotata, riconoscendosi in una musica più familiare per chi ama la tradizione rock, ed è sicuramente una bella e suadente emanazione dell’album. E pure nella finale “Icon” si viene toccati dai tasti d’avorio, ma il momento è del tutto diverso perché è solo l’incipit (tra l’altro molto gustoso), e perché qui siamo di fronte ad una suite di oltre tredici minuti, esprimendo una delle situazioni fondanti dell’album, altalenando tensione nervosa e morbidissima dolcezza; perla riuscitissima che possiede un normalissimo ma tipicamente virtuoso assolo di chitarra, l’unico in effetti di tutto l’album, e niente affatto male.
I sintetizzatori si animano abilmente nel tessuto strutturale rendendo più algido l’ascolto. C’è del post-rock nell’aria di questo disco, ma se un legame col passato c’è, è quello con la propria discografia insieme a certi umori alla Queensryche, quelli meno luminosi, che alcuni pezzi contengono in senso lato. Quando appare il pianoforte si stempera quella sensazione soffocante di estremo accoramento. Non è il disco adatto per approcciarsi la prima volta ai P.O.S., però contiene un fascino artistico spinto. E’ solo per chi ama le espressioni serie e pregnanti, nessuna fuga verso il semplice intrattenimento anche se alla fine i brani entrano e si ascoltano con rilassata vibrazione. Cosa c’è dei vecchi Pain Of Salvation? Direi parecchio sia come anima che come stile, ma va ascoltato bene tutto per rendersene conto, non è esplicito. I Pain Of salvation restano una importante realtà del progressive-Metal; essi sono ciò che la vera arte vuole sempre che sia, cioè un mondo sperimentale che vola costantemente alto sia esteticamente, sia nei contenuti.
Roberto Sky Latini
01. Accelerator
02. Unfuture
03. Restless Boy
04. Wait
05. Keen to a Fault
06. Fur
07. Panther
08. Species
09. Icon
Daniel Gildenlow – vocals
Johan Hallgren – guitars
Daniel Karlsson – keyboards
Gustav Hielm – bass
Leo Margarit - drums